"Perle" d'Aspromonte - RC 1997
L'impianto urbanistico ed il conseguente progresso economico e sociale della città di Reggio, sono geograficamente condizionati dalla presenza di una serie di alture che, immediatamente a ridosso del nucleo urbano, ne delimitano fortemente, verso est, il rapido sviluppo. Si tratta di una serie di rilievi collinari che, dalla stretta pianura costiera alluvionale, si elevano progressivamente, fino ad addossarsi ai contrafforti cristallini aspromontani. Fra tutte, particolare interesse rivestono le formazioni sedimentarie neogeniche che si incontrano fra i 600 e gli 800 m. di quota. Per l'abbondanza degli affioramenti ben esposti e per la ricchezza delle forme fossili in essi contenuti, questi terreni continuano ad essere, oggi come per il passato, appassionato campo di indagine per studiosi e ricercatori di ogni dove, che trovano qui, stimolanti problematiche. L'attenzione è sempre ben desta, anche per le numerose difficoltà di carattere interpretativo, tettonico, paleontologico e sedimentario: in questa palestra si sono cimentati alti ingegni, pervenendo, tra mille polemiche, a risultati diversi. Ma, sia pure a piccoli passi, le nostre conoscenze continuano a progredire e , quanto andremo qui di seguito esponendo, costituisce la più recente acquisizione della Scienza. Intorno a 700 m.di quota, le alture in questione, formano una giogaia pianeggiante che si disegna in alto, quasi orizzontalmente, con sorprendente uniformità. La configurazione orografica, pure abbastanza movimentata per le profonde erosioni subite, evidenzia però, almeno in apparenza, un'inattesa monotonia geomorfologica. A tal proposito, nel 1895, l'ing. E. Cortese del Regio Ufficio Geologico, nella sua "Descrizione Geologica della Calabria", così si esprimeva: "Esse erano in linea continua ... ma le profonde erosioni, hanno ridotto questa bella cintura, ad una serie di perle staccate, che posano su tutti gli altopiani e le pendici, rimaste fra orridi burroni a sponde di gneiss e micascisti ". Queste estese formazioni si incontrano un po' dovunque nella provincia reggina e anche altrove, in Calabria come in Sicilia, ma solo nella parte più meridionale di Reggio " arrivano fino all'altezza di 1000 e più metri sul mare, acquistando anche una potenza superiore ai 200 metri " (CORTESE ibidem, ), come a Calanna, S. Sperato, Mosorrofa, Vinco e Pavigliana. La zona delle nostre ricerche è però compresa nel F. 254, tav. II N.O. "Cardeto" della Carta Topografica d'Italia, edita dall'Istituto Geografico Militare ( I.G.M.) e riguarda gli accumuli sabbiosi di Monte Gonì e di Monte Chiarello, sui quali poggiano, rispettivamente, gli abitati di Terreti e di Ortì. Già i toponimi tradiscono le posizioni di preminenza di questi antichi casali di Reggio: secondo alcuni studiosi, il nome di Terreti, potrebbe derivare dal greco teretion = piccolo osservatorio e, in effetti, la località preaspromontana, per la sua posizione rilevata, è un piccolo osservatorio sullo Stretto; Ortì deriva anch'esso, senza ombra di dubbio, dal greco ipertion = media altezza o media altura, che sottolinea la sua particolare ubicazione. Si tratta in ogni modo, di ambe che culminano rispettivamente a 753 m. (M. Gonì) e 745 m. (M. Chiarello), corrispondenti ai capisaldi fondamentali della rete geodetica italiana. L'aspetto è tabulare, giacché in cima si stendono modesti altopiani, lievemente ondulati per le stratificazioni sabbiose e, moderatamente inclinati, si protendono verso il mare. I fianchi, molto ripidi, sporgono a precipizio per più di 300 metri, intagliati come sono dai corsi delle fiumare che scorrono giù in basso. Il reticolato geografico si compone qui di una serie di impluvi a carattere torrentizio, alternando periodi piena a periodi di magra. Sono acque a regime mediterraneo, alimentate come sono, esclusivamente dalle precipitazioni meteoriche che, in periodi anche abbastanza recenti, hanno inciso molto efficacemente gli estesi ammanti terrazzati. Troviamo infatti gli orridi burroni di M. Chiarello, scolpiti dalla Fiumara Scaccioti, a nord e dal Torrente Fiumetorbido, a sud. Ma le più cospicue sono le fiumare che hanno intagliato e isolato il pianoro di M. Gonì. Si tratta dell'Annunziata e del Calopinace, notevoli sia per l'intensa attività erosiva esercitata, sia per lo sviluppo del corso. Il Calopinace specialmente, presenta una valle particolarmente profonda avendo escavato il suo alveo in modo tale che, in certi luoghi, si presentano pareti alte anche 400 metri e il corso d'acqua scorre incassato fra le rocce quasi a picco. Tali caratteri sono propri di fasi molto giovani dell'incisione valliva. Dobbiamo infatti pensare che ancora 4 milioni di anni fa, queste rocce costituivano i fondali del mare pliocenico e che, solo in tempi successivi, sono state innalzate e portate allo scoperto, alle quote attuali, per i movimenti epirogenetici, in conseguenza del parossisma orogenetico alpino. Poiché il moto di emersione, per tanti versi, è da ritenersi ancora in atto, più il territorio si innalza, più il fondovalle viene solcato dalle acque selvagge che tendono al profilo di equilibrio. Le incisioni del Gonì, molto dirupate anche per la natura calcarenitica della roccia, hanno un aspetto meno ripido sul versante settentrionale. Su questo lato infatti, prospiciente fiumara Annunziata, la presenza di case sparse e di agglomerati elementari, come quello di Perlupo, unitamente alle coltivazioni terrazzate, con i gradini intagliati sui fianchi del rilievo (per l'atavica fame di terra da coltivare da parte del contadino calabrese), hanno di molto addolcito la pendenza dell'incisione valliva. Più scosceso si presenta invece il fianco meridionale, precipite sulla riva destra del Calopinace. La strada provinciale, verso la stazione climatica di Gambarie d'Aspromonte, che costeggia M. Gonì, è quasi a strapiombo. Sulle acque del torrente, un tempo più tumultuose, ma che oggi, fagocitate da orti e giardini, scorrono lentamente giù in basso, l'ardita verticalità delle pareti fa quasi rabbrividire l'osservatore. Sul pianoro isolato si coglie il senso dell'abisso e lo sgomento per la voragine, si supera solo con la visione stupenda del paesaggio, potendo l'occhio spaziare liberamente sul mare, come da un balcone. In lontananza, al di là dello Stretto, tra il grigiore di poderose masse montane, si riconosce la maestosa cima fumante dell'Etna. Sotto di noi, la città di Reggio e la sua costa, dalla Punta di Pellaro, sul versante ionico, fino alla marina di Gallico, su quello tirrenico. Alle nostre spalle si erge il baluardo aspromontano, ma lo sguardo sperduto, fattosi ora più attento, cerca di orientarsi su connotazioni più vicine e perciò più rassicuranti. Si cerca in basso la strada con i suoi tornanti e si ravvisano così i centri di Straorino e di Arasì; verso nord, oltre la Fiumara Annunziata, alla nostra stessa altezza, si distinguono Monte Chiarello e il paese di Ortì. A meridione, dall'altra parte del Calopinace, quasi alla stessa quota e con un profilo degradante a scala verso il mare, si scorge il tavolato dei Piani di S. Elia, ai cui piedi sorge l'abitato di Vinco. L'indagine visiva coglie così d'istinto l'unità di questo territorio, le cui formazioni terrazzate, un tempo continue ed estese, sono oggi smembrate in una serie di alture separate da abissi.
La successione stratigrafica
Un esame fatto più da presso, direttamente sul terreno, rivela quindi l'identica natura litologica di questi sedimenti coevi dell'era terziaria. I depositi si presentano infatti ben esposti sui fianchi vallivi delle fiumare, potendosi comodamente osservare a partire dalla base e le indagini paleontologiche permettono una datazione che abbracciando tutto il Neogene, perviene sino ai primi momenti dell'Era Quaternaria. Le nostre verifiche, effettuate appena fuori dell'abitato di Terreti, lungo la rotabile che conduce ad Ortì, sul fianco destro della fiumara Calopinace, consentono di individuare, dal basso verso l'alto : 1) le formazioni cristalline di base che costituiscono le ultime propaggini meridionali del massiccio d'Aspromonte; 2) gli imponenti accumuli sabbiosi di età terziaria che, sovrapposti e mescolati a livelli conglomeratici, divengono sempre più fini e minuti e presentano significative stratificazioni incrociate; 3) un enorme deposito calcareo sommitale, ricchissimo di fossili. Questa copertura a bancate, definita macrocoquina calcarea, presenta caratteristiche increspature (ripples) laminari e tabulari, indice di un particolare ambiente di deposizione.
Il substrato metamorfico
Il piano cristallino di appoggio è formato da rocce prevalentemente scistose con una ricca serie di filladi e micascisti, accompagnati localmente da gneiss, cui si intercalano numerose varietà di scisti cloritici e biotitici. Talvolta sono nerastre per la presenza di biotite, tal'altra sono invece grigio-verdastre, lucenti, molto spesso fogliettate e ricche di piccolissimi cristalli di pirite cubica. In località Tombarello (q. 506) queste rocce si sono aperte un varco fra i depositi di copertura e qui, giunte allo scoperto, hanno messo in bell'evidenza un piano di faglia. La gigantesca frattura, una delle tante che funestano questa nostra terra, incombe sulla strada ed è muta testimone dei moti disgiuntivi che hanno dislocato a grandi altezze e lacerato gli ammanti sedimentari del rilievo d'Aspromonte. Alcune di queste parti elevandosi, hanno superato abbondantemente in altezza le consimili formazioni che, rimaste circa 200 metri più in basso, sono fronteggiate e divise dalla protrusione cristallina. Verosimilmente, ad un regime di spinte tangenziali compressive, che hanno innalzato il rilievo, è seguita una fase distensiva che ha provocato il cedimento e lo scivolamento verso la costa, dei pacchi rocciosi addossati marginalmente al massiccio. I terreni metamorfici, a causa quindi di tutta una serie di vicissitudini tettoniche, si presentano interessati da fenomeni di alterazione in grande stile che li hanno intensamente milonitizzati, modificandone le caratteristiche. I grandi avvenimenti tettonici li hanno anche profondamente fratturati e, nelle superfici più esposte, si presentano ridotti in minuti frammenti lapidei. Nonostante tutto però, queste rocce mantengono, almeno nelle loro parti più profonde, un buon grado di coesione interna, talchè il ripiano stradale è stato intagliato convenientemente in esse.
Le formazioni sabbiose
Sono l'elemento caratterizzante del paesaggio e si incontrano fin dai primi tornanti alla periferia di Terreti. Gli accumuli sabbiosi giacciono qui direttamente sul basamento metamorfico e il piano di appoggio è ondulato e segue l'andamento dell' antica superficie di erosione. Le sabbie formano depositi a carattere misto con numerose intercalazioni ghiaiose e ciottolose; spesso sono in gran parte caotici, con aspetto di falsa stratificazione, più di rado sono invece regolarissimi, presentando una stratificazione orizzontale o solo di poco inclinata. Questi orizzonti sono ben cementati e formano anche forti dirupi che le acque piovane, acide, penetrando nei pori del materiale, riescono a disfare. Danno così luogo ad un paesaggio aspro, specie dove sono stati incisi notevolmente, come nel Vallone Scassoli , affluente del Calopinace. Poichè si sono formati in diversi momenti, nell'ultimo scorcio dell'era Terziaria, presentano differenti caratteri litologici: talvolta le sabbie sono grigiastre, ma più spesso gialle o giallo-chiare e risultano costituite da detriti di roccia a grana media e minuta, miste più o meno a calacare e gremite di fossili appartenenti a vari gruppi sistematici, dal cui esame si ricavano preziose indicazioni ecologiche. Vi si trovano infatti resti di Echinodermi, Artropodi (Balani), Molluschi, Briozoi incrostanti, Coralli e, tra i Brachiopodi, numerose sono le Terebratule. Questi ultimi soprattutto, rivelano un habitat litorale ed un clima di tipo temperato-caldo. Sono infatti animali che in genere prediligono le acque tiepide e che oggi si spingono molto di rado a profondità superiori a 200 metri. Anche le analisi granulometriche di questi sedimenti rivelano importanti indizi per una ricostruzione paleoambientale. L'aspetto caotico, i livelli ghiaiosi e i materiali più grossolani più frequenti negli strati inferiori, all'inizio del ciclo sedimentario, denunciano energiche condizioni ambientali idrodinamiuche, che vanno attenuandosi man mano che si procede nelle assise superiori, dove si passa ad una stratificazione suborizzontale con elementi più piccoli e minuti. Evidentemente le condizioni del mare erano relativamente più calme e così la sedimentazione aveva modo di classare i depositi, permettendo gli accumuli di materiali fini e finissimi. Il passaggio dalle sabbie ai livelli ciottolosi intercalati, avviene per graduale e rapido aumento delle dimensioni dei granuli; i ciottoli sono di varia natura: granitici, pegmatitici e costituiti da frammenti di scisti cristallini vari, di gneiss porfiroide ed anche di porfido rosso. Ciò dimostra come questa formazione, trasgressiva sul cristallino che affiora qua e là sotto forma di piccoli spuntoni, abbia ricevuto il materiale per la sua formazione, dai terreni del basamento cristallino stesso. Per lo più si tratta di livelli che si alternano fra loro con una potenza (spessore) variabile, che non presentano una netta stratificazione, ma solo variazioni graduali e sfumate nella granulometria. La consistenza dei livelli ciottolosi è molto varia, ma in genere, almeno in questa serie, non oltrepassa i 30 cm. Le sabbie sono quasi sempre quarzose (il che dimostra dunque anche per esse la genesi cristallina), ma contengono anche una quantità variabile di calcare per l'abbondante presenza di fossili che racchiudono. Nell'assieme gli strati presentano un bassissimo grado di coesione, però in qualche livello, per cementazione più spinta (diagenesi ), le sabbie si presentano sotto forma di piccoli livelli compatti che si alternano con le sabbie sciolte. E' proprio in questo caso che formano i "crostoni", cioè orizzonti con alternanze sabbiose e letti conchigliari. Lo spessore di questa formazione va da un minimo di 30 metri, sulle pendici meridionali del Gonì, ad un massimo di 150 metri, sulle pendici nord-occidentali dello stesso monte. I più tipici apetti tuttavia, si riscontrano immediatamente a N.W. dell'abitato di Terreti; qui il paesaggio è infatti esclusivamente sabbioso, quasi desertico, anche perchè la sabbia, di un colore decisamente giallo, è ammassata in piccole dune. Sono scomparsi i livelli ghiaiosi e la granulometria si mantiene minuta o media. La particolare conformazione a strati incrociati, suggerisce ad un primo esame, l'azione del vento e fa supporre l'origine eolica di esse, quali dune costiere e litoranee. Indagini più recenti e approfondite però propendono per l'azione di correnti di fondo, ora in un senso, ora nell'altro. Gli strati incrociati sono infatti inclinati in direzioni opposte e questo tipo di accumulo è la prova di inversioni nel senso delle correnti marine che depositano i sedimenti prima in una direzione epoi nell'altra. Si tratta di quelle stesse condizioni che si verificano oggi nelle zone soggette all'azione di forti correnti di marea, che hanno permesso accumuli di dune idrauliche dalla tipica stratificazione incrociata a " lisca di pesce " (herringbone cross-bedding). Queste formazioni talvolta si presentano come decapitate superiormente giacchè il passaggio agli strati sovrastanti non avviene con gradualità. La sequenza appare bruscamente interrotta dalla sovrapposizione di bioclastiti che, chiaramente discordanti con il piano di appoggio, formano l'edificio successivo. Certamente, l'area dello Stretto di Messina, costituiva all'epoca, un ambiente di deposizione fra i più turbolenti. L'intensa attività tettonica, formando scarpate sottomarine sulle quali si ammucchiavano i materiali provenienti da un massiccio in rapido sollevamento e in rapida erosione, accentuava l'energia idrodinamica dei flussi delle correnti di marea, che trovano oggi riscontro negli edifici dunari a sabbie grossolane e ghiaie fini, indizio di accumuli idraulici profondi. L'alternanza di attive correnti di fondo,, in una zona di stretto, fa aumentare la velocità di efflusso e i fondali sabbiosi vengono spazzati continuamente ed energicamente con un andirivieni, che plasma i depositi con stratificazioni incrociate. Il ciclo orogenetico, accompagnato da sistemi di fratture e faglie, causava inoltre, brusche variazioni nella pendenza di questi depositi. L'instaurarsi di nuove condizioni di equilibrio, causava così lo scivolamento (slumping) verso zone di mare più profondo, di enormi volumi di materiale che davano così origine a troncature sottomarine, a movimenti franosi e a colate torbiditiche. Le discordanze fra le stratificazioni, accompagnate dalla diversa granulometria dei sedimenti, permettono quindi di ricostruire il gioco dei depositi gravitativi che hanno trasportato e risedimentato altrove queste masse.
La Macrocoquina calcarea
Nelle porzioni sommitali, la roccia diviene francamente carbonatica e molto compatta, anche per la profusione di fossili ivi contenuti, ad elevato grado di cementazione e che sono di difficile estrazione. Le acque, ricche di carbonato di calcio, hanno come "incollato" le conchiglie alla sabbia, dopo avere sciolto parte del calcare che era in esse e che si è quindi trasformato in cemento dopo essere stato ridepositato per l'evaporazione del solvente. Ne è risultato un vero e proprio impasto di conchiglie con i granuli sabbiosi, la cosiddetta macrocoquina calcarenitica, così dura, così ben consolidata che, nel paesino di Terreti, gli abitanti la utilizzano come materiale da costruzione. Queste strutture sedimentarie sono dette " a laminazione incrociata " perchè presentano tutta una serie di sottili increspature laminari orizzontali, quasi parallele fra loro. Ciò è dovuto al fatto che, man mano che i depositi costieri litorali si innalzavano, l'acqua diveniva meno profonda e la corrente si attenuava: le particelle sabbiose perciò, venivano spostate con maggior delicatezza. La diminuzione relativa del volume idrico, a contatto con un fondale in via di emersione, causò un aumento dell'attrito (resistenza fluido-dinamica) ed il rallentamento del flusso dell'acqua, creò queste sottili laminazioni. Queste sono anche la prova che l'area non era soggetta all'azione di correnti direzionali, poichè solo la pendenza dei depositi potrebbe attestare una certa direzionalità dei flussi mentre, al contrario, queste calcareniti si presentano con una giacitura suborizzontale (planar cross-bedding), talora riunite in bancate (tabular cross-bedding). I banconi si estendono per uno spessore di circa 35 metri ed alla sommità, si trasformano in una serie di straterelli in cui, ai crostoni organogeni, si alternano livelli di sabbia impastata con frammenti di conchiglie. Le alte pareti a strapiombo sono spesso ricoperte da uno strato compatto derivante dalla ricristallizzazione del calcare disciolto ed in seguito deposto all'esterno della formazione. Dalle parti traforate di questo crostone, si intravede la macrocoquina sottostante, ben stratificata. In altri punti ancora, questo calcare risulta sezionato e dà luogo a formazioni verticali simili a canne d'organo: gli " organi geologici ". Questa formazione, sebbene sia zeppa di macrofossili, è difficilmente correlabile. Le forme presenti infatti (Ostrea, Pecten, Chlamys, Balanus, ecc.), quantunque molto significative dal punto di vista ecologico, dacchè indicano una facie litorale, non sono molto utili per una datazione assolutamente sicura, ma gli esami delle microfaune, la fanno risalire al Pliocene medio-superiore. L'abbondanza di conchiglie di Lamellibranchi, di grandi dimensioni e dalla forma appiattita e robusta, depone per una zona litorale, battuta dal moto ondoso e riccamente ossigenata. In questo ambiente infatti, solo le forme provviste di gusci ispessiti, hanno le migliori garanzie di sopravvivenza, in quanto possono offrire una più elevata resistenza passiva al moto violento dei frangenti. Significativa è la massiccia presenza dei molluschi bivalvi e nel contempo, l'assenza pressocchè totale, di gusci di Gasteropodi, eccezion fatta per le Patelle e per qualche rarissimo Epitonide. La maggiore o minore facilità di conservazione delle parti scheletriche dei vari organismi, dipende da fattori quali la natura del sedimento, l'ambiente di origine e, non ultima, la composizione mineralogica delle parti dure. Infatti, mentre il materiale siliceo di certe Spugne (Silicosponge o Ialosponge) o quello fosfatico dei denti di alcuni Pesci o dei gusci di vari Brachiopodi, è abbastanza stabile nel tempo, le conchiglie, costituite da tenero carbonato di calcio, sono molto sensibili alle variazioni ambientali. Si osserva così che le conchiglie dei Gasteropodi, a composizione aragonitica, in queste stratificazioni, sono andate completamente distrutte, mentre si sono conservate quelle dei Pelecipodi o Bivalvi che hanno composizione prevalentemente calcitica e, tra queste, soprattutto quelle delle Ostriche e dei Pecten. Ciò è dovuto al fatto che il carbonato di calcio si presenta in due forme, una meno stabile dell'altra. L'aragonite infatti, modificazione ortorombica di CaCO3 tende progressivamente a trasformarsi nella più stabile calcite trigonale. Ora le macrofaune fossili rinvenute, sono rappresentate essenzialmente da forme a scheletro calcitico, mentre si registra l'assoluta mancanza di forme a struttura aragonitica. Poichè non è pensabile che nelle zone litorali, dove è tutto un pullulare di vita, vi fossero solo alcune forme, con l'esclusione di altre, accanto ai Lamellibranchi, ai Briozoi, agli Echinidi, ai Brachiopodi, ai Crostacei sessili (Balani) e ai Policheti (Vermi) Tubicoli Sedentari, dobbiamo necessariamente annoverare anche i Gasteropodi, i Cefalopodi e gli Esacoralli ed è logico chiedersi che fine abbiano mai fatto. E' lecito perciò supporre che questi ultimi siano scomparsi dai depositi rocciosi per variazioni legate alla temperatura, alla pressione ed alla salinità dell'acqua. Le modificazioni ambientali, già nei fondali marini, possono aver instaurato processi decompositivi che hanno alterato la struttura mineralogica dei nicchi conchigliari. Successivamente, portati allo scoperto, per l’innalzamento delle terre emerse, su di essi possono aver agito i fenomeni diagenetici (3) che hanno completato l’opera di distruzione. E’ noto infatti come la solubilità del carbonato di calcio aumenti con il diminuire della salinità; ciò potrebbe essere riferito, in parte, ad un massiccio apporto costiero di acque dolci fluviali, in conseguenza dell’aumentata piovosità per l’emersione del massiccio. V’è poi da credere che nei passati periodi geologici, si siano verificate vicende climatiche alquanto diverse da quelle attuali, per cui l’aragonite, metastabile e perciò più facile a subire processi di trasformazione, si è dissolta con facilità, lasciando al suo posto, in qualche caso, solo le impronte interne dei gusci oppure esili rivestimenti di consistenza gessosa che, appena esposti, si sfarinano radidamente. L’equilibrio chimico, espresso dalla reazione: CaCO3 (insolubile) + H2O + CO2 (nell’aria) = Ca(HCO3)2 (solubile) tende a spostarsi verso destra, trasformandosi in bicarbonato di calcio, tanto più rapidamente, quanto più si è in presenza di: - acque fredde e diminuzione della temperatura (indizio di deterioramento climatico ?); - minor turbolenza dell’acqua (per la diminuita profondità a causa del moto di emersione ?); - aumento dell’anidride carbonica nell’aria (indizio di inquinamento atmosferico ?). E in effetti, verso la fine dell’era Terziaria, c’è qualcosa di tutto questo: si assiste infatti ad un sensibile raffreddamento del clima che prelude alla prima glaciazione dell’era successiva. È anche noto poi come l’orogenesi alpina sia stata accompagnata e seguita da imponenti manifestazioni vulcaniche che hanno interessato un po' tutto il bacino del Mediterraneo, specie nella sua porzione sud-orientale. Alcuni di questi vulcani sono ancor oggi attivi ed è possibile immaginare che lo fossero ancora di più in passato, all’epoca della loro origine e le cui crisi parossistiche, nel Quaternario, si manifestarono lungo la stessa linea di formazione degli Iblei (così per l’Etna, lungo l’orlo della fossa ionica), delle Isole Eolie e del Vesuvio (sull’orlo della fossa tirrenica). I grandiosi parossismi devono aver lanciato enormi quantità di gas, ceneri e polveri nell’atmosfera, tali da provocare abbassamenti di temperatura, con ripercussioni climatiche negative. Negli strati rocciosi si rinvengono infatti intercalazioni di materiale piroclastico, quali minuti frammenti di pomici e sottili livelli di tufo, con microscopici ma abbondanti granuli di vetro vulcanico (ossidiana). La coltre gassosa si arricchì in tal modo, delle esalazioni di anidride carbonica e degli altri gas venefici, certamente provenienti dall’area eoliana e tali fatti, provocarono le prime modificazioni del carbonato meno stabile: l’aragonite. Da ultimo, il sollevamento aspromontano, consentì i successivi processi diagenetici che, prodotti da periodi a clima caldo e secco, alternati a periodi di grande umidità, hanno determinato un susseguirsi di evaporazioni e di dissoluzioni con riscontri oggettivi nelle attuali formazioni sedimentarie del reggino.