Il Neanderthaliano della collina di Pentimele

21.03.2015 18:09

 

Era una mandibola di tipo neanderthaliano il fossile ritrovato nel 1970 da alcuni studiosi dell’Università di Messina. Si stava effettuando una campagna di scavi e di rilievi sul terreno ad Archi S. Francesco, sulla sponda sinistra del torrente Fiumetorbido, quando occasionalmente, fu raccolto questo frammento osseo che, una volta liberato dalle concrezioni e dal cemento sabbioso, mostrò la sua appartenenza all’all’Homo sapiens neanderthalensis. Inoltre la presenza di alcuni denti decidui ed il sottostante abbozzo della dentizione permanente – messo in luce, quest’ultimo, con l’indagine radiografica – permise di attribuire la mandibola ad un bimbo di cinque o sei anni di età.

Ai molteplici interrogativi che questo reperto suscita, temo, purtroppo,  che nessuno potrà mai dare una sicura risposta.

Ci si potrà chiedere come mai non sono stati rinvenuti altri resti e che ne è stato dei genitori; si possono fare mille e mille ipotesi sulle cause che ne hanno provocato la morte e sui motivi che lo hanno condotto sulla collina di Pentimele; tutte ugualmente legittime, ma senza un preciso riscontro. In ogni caso questo ritrovamento è di eccezionale importanza  e colloca Reggio Calabria (ma anche la cittadina di Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, dove sono emersi altri reperti), su  quell’itinerario ideale che questo nomade deve aver compiuto in Italia e nel resto del mondo.

La prima scoperta dei suoi resti avvenne nel 1856 in una piccola valle del fiume Neander – donde il nome di Neanderthal – presso Düsseldorf nella Germania occidentale e quel momento, non scevro di innumerevoli perplessità, segnò una pietra miliare nella filogenesi dell’uomo.

In seguito altri rinvenimenti si ebbero a Gibilterra, in Spagna, in Francia, in Croazia e, fuori d’Europa, in Palestina, in Mesopotamia (Iraq), in Marocco, in Rhodesia, e finanche in Indonesia, a Giava, nell’arcipelago malese.

In Italia, Reggio Calabria con la sua collina di Pentimele può aver rappresentato una ideale stazione climatica e balneare accanto a Leuca, Bisceglie, Monte Circeo, Saccopastore, dove pure furono trovati i suoi resti.

Da una così vasta diffusione territoriale appare dunque evidente che questo nostro antenato amava viaggiare e, da buon giramondo o “globe-trotter” come si dice oggi, migrò per ogni dove. Dalle terre meridionali dell’Africa, dove forse era nato, si spinse sempre più a settentrione, alla ricerca di nuovi spazi di confortevole soggiorno, finché non fu respinto dalle fredde brume del nord.

Da quel turista squattrinato che era doveva necessariamente rifornirsi di quel che l’ambiente gli offriva: bacche, radici, frutta e semi; inoltre cacciava e pescava. E deve essere stato proprio questo il motivo che lo ha spinto dalle nostre parti: il clima temperato-caldo e il mare.

Questo mare, tiepido tutto l’anno, coi suoi fondali pescosi e le sue spiagge, le sue scogliere piene d’ogni grazia di Dio. E poi, quali regioni sono più ricche e feconde di quelle a clima tropicale o subtropicale ? Laddove il clima è favorevole, flora e fauna sono varie ed esuberanti e non c’è in natura quella competitività esasperata che pone urgenti ed angosciosi problemi.

Ma perché questo gran parlare di lui ? Donde tanta importanza ?

Dapprima l’uomo di Neanderthal era stato interpretato come uno degli ultimi anelli di quella catena evolutiva che vede il genere Homo discendere dalla scimmie arboricole. Alla luce delle attuali conoscenze, però, i Neanderthaliani appaiono essere, piuttosto, un ramo collaterale della filogenesi umana; come un tentativo fallito che non è più riuscito a proseguire nella giusta direzione.

Probabilmente si estinse perché non riuscì a superare indenne l’ultima ondata di freddo intenso (la glaciazione würmiana) e dovette cedere il passo al sopraggiungente e più attrezzato uomo di Cro-Magnon (Homo sapiens) o, molto più semplicemente, i caratteri dell’ominide si mescolarono e si confusero con quelli sovrapposti del nuovo tipo di Homo.

I paleoantropologi, allo stesso modo di chi fa ricerche genealogiche sul proprio casato, meno egoisticamente indagano sul passato più remoto di tutto il genere umano. Tentano di delineare quella linea evolutiva che ha portato che ha portato all’uomo moderno. Molti sono i punti da chiarire e molte ricerche si dovranno ancora fare prima che la completa storia dell’uomo, scevra di incertezze, appaia in tutta la sua evidenza.

La difficoltà maggiore sta nel collegare, in modo razionale, i diversi tipi umani testimoniati dai numerosi reperti ossei, sinora venuti alla luce che, per di più, hanno fatto retrodatare e, di molto, la comparsa del genere Homo.

Oggi non si può ancora stabilire con certezza la successione diretta dall’uno o dall’altro tipo, né i rapporti di dipendenza di una determinata forma. In parte ciò è dovuto al fatto che l’abbondanza dei rinvenimenti o la loro varietà, diminuisce man mano che si procede a ritroso nel tempo, mentre aumenta una sorta di nebulosità che impedisce una chiara e univoca visione delle cose. Inoltre, non sempre i nuovi reperti contribuiscono ad illuminare il cammino. Il più delle volte, quanto meno fanno segnare il passo perché gli studiosi, messi davanti al fatto nuovo, all’imprevisto, sono costretti a dar loro un’altra collocazione rivedendo i loro convincimenti e le interpretazioni già superate. Molte sono infatti le lacune e le linee collaterali che appaiono divergere dalla filogenesi diretta, per poi magari, arrestarsi improvvisamente.

A questo punto ben si può comprendere il cauto procedere, a tentoni, degli antropologi. In ogni caso, l’uomo di Neanderthal presentando già alcune caratteristiche dell’uomo d’oggi, sembra costituire un ceppo dell’uomo moderno. Secondo alcuni scienziati poi, sembra i tratti neanderthaliani, non siano spariti del tutto; anzi, si sarebbero talvolta mantenuti, fusi e mescolati con quelli dell’Homo sapiens sapiens che gli si è sovrapposto.

Secondo i geologi, visse nell’ultimo interglaciale (tra il Tirreniano e la fase avanzata del Würm I, tra i 120.000 e i 35.000 anni fa) - in un periodo appartenente al Pleistocene medio-superiore, equivalente al Paleolitico medio, secondo la cronologia storico-protostorica (tra il Musteriano caldo e il Musteriano freddo, per l’esattezza). Il reperto reggino si colloca intorno a 50.000 anni fa (un po’ prima e durante l’inizio dell’ultima glaciazione).

In quanto al suo aspetto, gli scienziati lo descrivono decisamente brutto (almeno secondo i canoni attuali): di statura compresa fra i 155 e i 165 centimetri, basso e massiccio, dunque, aveva arti grossi e tozzi.

Un grande testone, appuntito all’indietro, per via di una grande protuberanza sulla nuca, a mò di crocchia, sormontava il tutto.

La fronte, molto bassa e sfuggente, era pressocché inesistente; in compenso gli occhi erano come protetti da una «tettoia» formata dalle arcate sopraccigliari tanto prominenti, enormi e robuste che, unite, costituivano un osso frontale unico (torus).

La bocca, di aspetto scimmiesco, dalle grandi labbra carnose, era provvista di una robusta dentatura e di una mandibola priva del mento.

Non era certamente un adone, ciò che comunemente si dice “un bel ragazzo” !  Ma quanti «fusti» d’altri tempi, non sono più tali ai giorni nostri !

Ritengo che molti inorridirebbero se dovessero incontrarlo nella vita quotidiana, oppure, nella migliore delle ipotesi, sbigottiti si domanderebbero se è proprio possibile che sia un nostro parente, sia pure alla lontana; rinnegherebbero di avere dei così orribili antenati !

Si racconta che quando in Germania furono trovati per la prima volta i suoi resti, alcuni operai addetti agli scavi, li confusero con quelli di un orso cavernicolo, data anche la rozzezza delle ossa.

Pertanto consegnarono il tutto ad un naturalista di un vicino liceo. Questi capì di trovarsi di fronte a dei resti umani molto primitivi e, recatosi sul posto per proprio conto, repertò altre ossa che comprovarono la sua idea. Comunicò quindi, eccitatissimo, la sua scoperta ad un famoso antropologo dell’epoca che, in un congresso di storia naturale, discusse il caso.

Le sue idee evoluzioniste circa l’origine scimmiesca dell’uomo, sollevarono però scandalo ed indignazione in quell’alto consesso di studiosi che, quasi all’unanimità, le rifiutò sprezzantemente.

Non dimentichiamo che nel XIX secolo il pensiero scientifico era profondamente permeato dallo spirito tradizionalista delle confessioni cristiane che altro non ammettevano se non l’origine divina dell’uomo.

Molti furono quelli che con tono irridente, sostennero che i resti presentati erano sì umani, ma che trattavasi di un uomo recente. Arrivarono anche ad aggiungere che quelle ossa erano così dissimili dalle attuali perché deformate da stati patologici. L’uomo in questione, anzi, secondo uno di loro, sarebbe stato affetto da idiozia, rachitismo e gotta !

Solo in seguito ad altri rinvenimenti simili in altre parti del mondo, i pochi che sostenevano la teoria darwiniana della discendenza animale dell’uomo, videro rafforzata e definitivamente confermata la loro tesi. Ma quante difficoltà ! Del resto, una simile mentalità dura a morire e permane ancor oggi, specie tra la gente comune: troppo dissimile dal nostro è l’aspetto scimmiesco dei nostri progenitori !

Ci si può anche chiedere: l’uomo di Neanderthal era davvero tanto idiota come comunemente si crede ?

Certamente la sua imbecillità, per nulla mistificata dall’aspetto fisico, non era così evidente come s’immagina. Non che fosse un ingegno elevato, anche perché le sue capacità intellettive erano grezze, non ancora affinate da quel patrimonio di esperienza, accumulatosi in migliaia e migliaia di anni, di cui godiamo noi oggi. Però le cose che gli tornavano utili, le conosceva perfettamente e se ne serviva a puntino, sfruttandole convenientemente e mescolandoci quel po’ di astuzia necessaria alla sua sopravvivenza.

Questo paleantropo viene genericamente ricordato come l’uomo delle caverne, cavernicolo o troglodita che dir si voglia, per via del fatto – ancor oggi piuttosto discusso – che, cercando riparo nelle grotte, frequenti sono le tracce della sua presenza in queste cavità naturali.

Nulla esclude comunque che egli usasse questi luoghi, non solo come dimora fissa, ma anche e soprattutto, occasionalmente, per riparo, per riunioni o per riti magici e propiziatori. Giacché  aveva il culto dei morti, usava questi anfratti anche per seppellire i suoi simili, consentendo in tal modo, a noi oggi, nel ritrovarne i resti, di capire il senso della sua religiosità.

Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo lontano e che avremo modo di trattare più avanti (vedi “L’uro in Calabria”).

Orbene, quest’uomo doveva divertirsi un mondo a «giocar coi sassi». Lavorava infatti instancabilmente a scheggiar le pietre dure, scegliendo le migliori e le più adatte, rendendole aguzze e coi margini taglienti per fabbricare punteruoli, raschiatoi, bulini, asce, coltelli e punte di freccia.

Dico divertirsi, perché la terra è praticamente disseminata dei resti dalla forma “a mandorla” (amigdale) di questa sua indefessa attività, così come noi oggi, spargiamo ai quattro angoli del mondo e perfino nello spazio, i residui della nostra civiltà dei consumi. Con la differenza che noi siamo miliardi di individui su una terra sovraffollata, mentre gli ominidi della preistoria si potevano contare sulla punta delle dita.

Ciò nonostante esistono numerose, abbondanti testimonianze della sua industriosità che inducono a riflettere su questa mole imponente di lavoro. Per questa sua manìa, utile d’altronde, chè altro mezzo non aveva per procacciarsi armi e utensili duraturi, è chiamato uomo della pietra ed età della pietra o Paleolitico, è detto il periodo in cui visse.

Nella sua epoca erano diffusi grandi animali quali l’ippopotamo, il leone, la iena e l’elefante. Da solo, ma più spesso in gruppo, per procurarsi il cibo non esitava ad attaccare, con impavido coraggio e calcolata astuzia, anche animali di grossa taglia. Specie quando, finito il tempo delle «vacche grasse», il clima caldo, per intenderci, sopravvenne l’ondata di gelo dell’ultima glaciazione e dovette misurarsi con animali vieppiù inferociti dalla fame e dal freddo, quali l’orso delle caverne, il rinoceronte lanoso e, nelle zone più settentrionali, anche il gigantesco mammouth. Testimonianza di queste lotte con gli animali del tempo sono gli avanzi dei pasti, costituiti dagli ossami fossili, spezzati, disaggregati e sforacchiati per trarne il midollo, trovati spesso accanto ai resti di un focolare.

Ad Archi, possono suggerire proprio quest’affascinante ipotesi le vestigia fossili di cervo, di rinoceronte, di ippopotamo e le zanne di Elephas antiquus; ipotesi ancor più credibile data la vicinanza del reperto neanderthaliano con i resti di questi animali.

Non è detto però che caccia e pesca gli andassero sempre bene e che tornasse a casa col carniere pieno. Allora, per sopperire alle carenze proteiche, talvolta, non disdegnava il cannibalismo, dissimulato da scopi magici e propiziatori.

A questo punto viene spontaneo chiedersi se questo bimbo sia servito da macabro pasto per i suoi simili; ogni lettore potrà fare le considerazioni che crede. In ogni caso l’uomo di Neanderthal cessò di esistere col sopraggiungere dell’ultima, più intensa glaciazione (Würm III), forse per la sua scarsa capacità di adattamento.

Dopo di lui, dato che la necessità aguzza l’ingegno, appare l’Homo sapiens e dall’uso della pietra scheggiata, si passa prima alla pietra levigata e poi all’uso dei metalli.

Ma, a questo punto, la preistoria cede il passo alla storia.