Botanica

 

-  DAL RIGORE, CON VIGORE  -

ovvero

 

Gli alberi venuti dal freddo

 

Mettendo da parte la rigorosa terminologia scientifica, si traccia la breve storia di alcune piante del rilievo  d’Aspromonte, affidandone il racconto agli alberi stessi.Stanco di una millenaria solitudine, il Pino loricato, l’insigne patriarca delle cime montuose del Pollino, chiamò a raccolta intorno a sé i vari membri della famiglia delle Conifere sparsi per tutto l’emisfero boreale.

Sentendosi ormai prossimo alla fine, il grande vecchio, sorretto da un figlio ga­gliardo che viveva nel bosco del Pollinello* presso Castrovillari (CS), desiderava solo il conforto dei suoi cari ai quali affidare un ultimo messaggio.

All’appello risposero però solo poche specie, fra le più vigorose e rappresentati­ve provenienti dalle montagne calabresi, sufficienti comunque a significare una stirpe delle nobili origini, che affondava­ in un lontano passato, fatto di freddo e dì stenti.

In particolare, dalla foresta del Falli­stro*, presso Spezzano della Sila (CS) e da Serro Petrulli*, nel territorio di S. Eufemia d’Aspromonte (RC), erano intervenuti due gi­ganteschi esemplari di Pino laricio.

Erano due spilungoni, sobri ma eleganti, che vantava­no aristocratici natali. Da Serra S. Bruno (loc. Agrimulara)* e da Bagnara Calabra (loc. Covala)* erano sopraggiunti, inoltre, alcuni vi­vaci e robusti scavezzacolli, parenti stretti fra loro: “pel di carota” l’uno, detto Peccio o Abete rosso, per il colore del suo le­gno, mentre l’altro, il cugino, l’Abete bianco, era un tipo albino e piuttosto algido, anche se di buon carattere.

Anche se non era stato invitato, era pure presente quell’antipatico del Faggio selvatico, venuto dalla Macchia della Giumenta di Bocchigliero* presso Cosenza che, mal dissimulando il suo temperamento superbo ed egoista, stava ad ascoltare con finta indifferenza.

Ma il nerboruto vecchio, che intendeva rivolgersi a tutti, non parve curarsene; con la ruvida scorza inargentata dal tempo e pure curvo sotto il peso degli affanni, prese a rammentare i fatti di famiglia, ed esaminando pacatamente le vicende di ognuno, fece il punto della situazione.

Furono passati in rassegna gli ultimi milioni di anni, allorquando si verificarono i grandi cambiamenti climatici dell’era quaternaria che provocarono a più riprese, fasi di freddo intenso alternate a periodi di clima più mite o caldo addirittura.  

“Quando i ghiacciai dilagarono nelle vallate - disse - e le coltri nevose ammantarono tutto di bianco, molte specie nordiche, animali e vegetali, presero a scendere verso il meridione.

Fu così allora che i nostri antenati costituirono quelle grandi foreste che, spingendosi fino al mare, fecero assumere alla Calabria l’aspetto della penisola scandinava.

Nelle fasi interglaciali invece, ogni ritiro dei ghiacci favorì il ritorno al nord e la risalita sulle montagne della vegetazione forestale che era migrata più in basso. Solo piccoli contingenti - asserì - rimasero a testimoniare le precedenti avanzate.

Si trattava di forme « relitte », quasi avamposti isolati che, ostinatamente, avevano rifiutato di cedere a nuove ondate migratorie.

Erano « legni d’altri tempi », alberi d’alto fusto per lo più resinosi e sempreverdi che, educati spartanamente al rigore climatico, si erano andati progressivamente irrobustendo nel fisico e nel carattere, sì da adattarsi alle mutate condizioni ambientali. La salda tempra, infatti, aveva consentito loro di sopravvivere in poche « stazioni rifugio », ai margini delle aree più di fredde.

Noi siamo - concluse con una punta di orgoglio - i discendenti attuali di quelle « eroiche sacche di resistenza ». Non crucciatevi troppo se gli uomini di scienza ci additano come paleoendemismi, specie relitte e quant’altro, quasi che la nostra vecchiaia e i nostri acciacchi ci rendano pronti per l’ospizio.

La realtà é ben diversa, siamo i testimoni di un tempo in cui dominavamo la terra; siamo una preziosità da proteggere e tutelare affinché la nostra biodiversità possa contribuire ad arricchire il pianeta. Siate dunque fieri dei vostri padri, di quei pini e quegli abeti nordici che, me­glio di altri, ad onta di tutte le avversità climatiche e ambientali, hanno saputo su­perare ogni barriera geografica e salutate con gioia l’ospitalità di queste terre meridionali che vi hanno accolto permettendovi nuova prosperità.

Non lasciatevi quindi abbattere dalle difficoltà, che sicuramente incontrerete ancora sul vostro cammino, date sfogo al­la vostra inventiva e alle vostre risorse, né mostratevi troppo disposti ad accettare su­pinamente i soprusi dell’uomo ! “.

 Così disse il vecchio con enfasi, susci­tando un mormorio di approvazione nell’uditorio, poi rapidamente, prese a raccontare qualcosa di sé. per offrire ai presenti un esempio di vita.

“I botanici mi hanno attribuito un no­me dlifficile: Pinus heldreichii var. leucodermis, magari poco accattivante, ma cer­tamente di grande prestigio, per ricordare la figura di Theodor von Heldreich (1822 - 1902), uno dei più grandi studiosi della flora balcanica cui appartengo.

Il mio più diretto progenitore, infatti, vive ancora sui monti della Bosnia sudorienta­le, dalla quale poi alcuni figli partirono verso sud, per colonizzare la catena del Pindo e il Monte Olimpo in Grecia.

An­che la mia venuta in Calabria si colloca in tale contesto e, qui giunto, pur con qual­che piccola modifica, riguardante soprattutto il colore chiaro della mia corteccia che permane anche allo stato adulto, mi sono perfettamente adattato al nuovo am­biente che, per molti aspetti, è simile alla mia terra d’origine.

Non è che io voglia mostrarmi sempre giovane, con la « pelle bianca » (= leucodermis), per mascherare la mia età veneranda; certe velleità estetiche le lascio agli uomini.

Si tratta piuttosto di una risposta a certe esigenze ambientali. Poiché, come sapete, ho un carattere ascetico e solitario, per evitare gli assembramenti o l’insidia dei pascoli e per sottrarmì alle competizioni, preferisco rifugiarmi sulle vette dei monti. Lassù, a grande altezza, godo dell’aria aperta e frizzantina e, in pieno sole, vegeto isolatamente sulle rupi calcaree, in zo­ne impervie, preferibilmente esposte a nord. Certamente, il vento e il freddo, hanno esercitato nel tempo la loro influenza e continuano tuttora a modellar­mi, ma non mi preoccupo più di tanto, an­che se per via dell’aspetto contorto del fusto e dei rami, posso apparire come un vecchio artritico; quello che temo inve­ce, è il calore troppo intenso della radiazione solare, dalla quale mi cautelo riflettendola in parte, grazie alla mia corteccia che, come una corazza, é costituita da squame trapezoidali ricoperte da numero­se scagliette chiare e lucenti.

Ciò mi ha valso anche il nome di Pino loricato (dal lat. lorica = corazza), con il quale mi chiama affettuosamente la gente comune.

Non ho alcun rimpianto anzi, mi commuovono le attenzioni di cui sono fatto oggetto; molti pensano che io sia una spe­cie prossima all’estinzione, ma ho già provveduto ad assicurarmi una numerosa progenie che affido alle vostre attenzioni.

Mi hanno riferito infatti che alcuni miei figli, seguendo il costume paterno, sono riusciti a colonizzare le balze più inaccessibili del rilievo d’Aspromonte, insediandosi nei ripidi canaloni ricoperti in parte dai detriti di falda, ma di essi non ho conoscenza diretta. Invece, so per certo che in Lucania vivono numerosi altri miei discendenti e qui potrete in­contrare anche teneri virgulti di 40 e più cm. di altezza, niente affatto rari, che atte­stano la vitalità della mia specie”.

A questo punto, saggiamente tacque e lasciò che gli altri esprimessero libera­mente la loro opinione.

 

Con meditato sussiego teutonico, corrotto pero da espres­sioni dialettali, prese quindi la parola il Pino laricio (Pinus nigra subsp. laricio var. calabrica). che rassicurò il vecchio, confermandogli l’intenzione, almeno per quel che riguardava la sua specie, di mantenere alto il prestigio del casato.

Giammai avrebbe mostrato segni di cedimento, tutt’altro ! Ribadì, infatti, di essere passato all’azione, tollerando, di volta in volta, il freddo e l’aridità. In buona compagnia, con alcuni fidati suoi simili, era riuscito ad occupare nuove e più vaste porzioni di territorio, colonizzando la Calabria, la Si­cilia, la Toscana e persino, la Corsica.

Specie frugale e rustica, in Calabria era riuscito ad insediarsi fra i 1000 e i 1800 m. di altezza, pervenendo anche a 2000 metri come sulle pendici dell’Etna, dove non aveva temuto neanche il fuoco.

Affermò di essere fiero delle sue ori­gini che non avrebbe mai rinnegato, conti­nuando a vivere nel solco delle tradizioni di famiglia. Discendeva infatti dal nobile Pino nero d’Austria il quale, mosso da spirito pioniere e avventuroso, aveva in­trapreso grandi viaggi, raggiungendo il massimo della sua espansione al termine dell’ultima fase glaciale. Giunto in Italia, sì era trovato così bene nelle località me­ridionali, da divenire il simbolo stesso della montagna calabrese.

A causa della forte concorrenzialità di altre specie, aveva però visto restringersi notevolmente il suo areale e, con qualche piccolo cambiamento adattativo, scelse come definitiva dimora il versante ionico del territorio aspromontano e le foreste della Sila, dove svettano esemplari di enormi dimensioni, alti anche 40-50 me­tri, noti come « i giganti di Fallistro » nel bosco omonimo. Questa simpatia per la nostra terra gli valse l’appellativo di « Pi­no di Calabria ».

Per ostentare il suo blasone, rivelò poi, di aver legato indissolubilmente il suo nome alla storia, quando nel 1862, of­frì riparo al generale Garibaldi, l’Eroe dei due mondi, rimasto ferito presso Gambarie d’Aspromonte, nello scontro con le truppe piemontesi.

“L’albero sulla montagna prende tutto ciò che gli porta il clima. L’unica scelta che ha è di mettere radici più in fondo che può”.- CORRIE TEN BOOM Each New Day - (Revell)Infine, menò vanto anche del suo ap­parato radicale che aveva escogitato am­pio, ben organizzato e particolarmente ro­busto. Lo disse provvisto di un fittone ab­bastanza sviluppato e munito di grosse ra­dici, molto espanse in senso orizzontale, con ulteriori ordini di radicicole più o me­no dirette verso il basso. Asserì di poter in tal modo esplorare vasti settori di suolo ed avere un buon ancoraggio anche su terreni in forte pendenza.

In ambienti rocciosi e con terreno praticamente assente, questa architettura poteva pure modificarsi in conseguenza del fatto che il fittone non poteva accrescersi adeguatamente e rima­neva più o meno ridotto. Era in grado per­ciò di sviluppare un apparato radicale più superficiale, ma capace di sfruttare gli spazi liberi fra le rocce, garantendo sem­pre un ancoraggio sicuro ed un sufficiente rifornimento di acqua e nutrienti.

 

Fu quindi fa volta dellAbete bianco (Abies alba) di riferire le vicissitudini del­la sua progenie.

Fra i suoi padri, nominò un certo Abies priscopectinata dell’era secondaria, ma senza grandi convincimenti, anche perché gli studi paleontologici in proposito, non avevano ancora acclarato definitivamente la questione.

Riferì invece come la palinogia (lo studio del polline fossile) avesse messo in evidenza i suoi diretti antenati, sicura­mente apparsi verso la fine del Terziario.

Rivelò anche di avere sofferto, intorno agli anni ’70, di un grave stato di stress (definito “morìa dell’abete bianco”), pro­vocato da una serie di cause, fra cui la siccità e l’inquinamento, che portarono ad una certa rarefazione della specie, ecce­zion fatta per le provenienze meridionali.

Fu in quella circostanza, infatti, che le specie ca­labresi si mostrarono più vigorose e resi­stenti. E qui, con toni apologetici, si dilungò sulle caratteristiche degli abeti aspromontani che, messi a confronto con gli altri simili del resto d’Europa, rivela­rono i migliori tassi fotosintetici e un maggior ritmo di crescita. Forse perché in Calabria - a suo dire - i cambiamenti climatici non ebbero quelle forti ripercussio­ni che altrove, invece, sconvolsero l’am­biente, per cui la biodiversità genetica che, quasi ovunque si impoverì, per una marcata selezione unidirezionale, nel me­ridione d’ Italia, si mantenne più ricca e differenziata.

Fece poi sfoggio della sua socievolez­za, decantando il suo sistema di rinnova­mento naturale che, disdegnando le asso­ciazioni monospecifiche, le foreste pure, preferiva invece i boschi misti.

La compagnia delle altre specie arboree, soprattutto di latifoglie, ma anche di conifere, agevolava infatti frequenti innesti tra gli apparati radicali delle piante contigue e permetteva il suo sviluppo e la sua espansio­ne.

 Inoltre, a rafforzare la sua tesi, citò che, proprio grazie alla sua vasta diffusione, era stato adottato, in ogni angolo del mondo, come emblema del Santo Natale.

 

A quest'ultima affermazione però, l'Abete rosso (Picea abies), fino a quel momento in disparte, non potè più trattenersi e a gran voce, rivendicò per sé il di­ritto dì primogenitura nella tradizione natalizia.

Diffusissimo nella taiga finlandese e in tutti i paesi scandinavi, ricordò a ognuno che già nella mitologia nordica era l’albero sacro a Odino e perciò, preso a simbolo della vita e della rinascita.

Prese quindi a ostentare le antiche origini della sua schiatta, risalenti all’era secondaria, tra il Giurassico e il Cretaceo, intorno a 100-150 MA fa, ma fu molto vago circa il luogo di nascita, sul quale preferì sorvolare.

Menzionò appena una non meglio precisata area coreana o giapponese  che, secondo alcuni paleobotanici, pote­va costituire la sua patria di origine, o an­che nordamericana, secondo altri ricercatori.

Ma, a questo punto, non senza malizia, qualcuno tra i presenti, cercò di zittir­lo obiettando che, non potendosi precisare il luogo di nascita, in pratica si trattava di un millantatore, figlio di ignoti.

Il   giovane Peccio però non se l’ebbe a male, anzi replicò che, tra i presenti, avendo compiuto il viaggio più lungo, il suo casato era, di certo, il più vigoroso di tutti.

Se era vero che le migrazioni, dovu­te ai grandi sconvolgimenti climatici, avevano portato ad un rimescolamento delle zone geografiche, impedendo l’individuazione di una patria d’origine e la for­mazione di endemismi, era anche vero che avevano sicuramente favorito gli scambi genetici rinvigorendo la specie che si era estesa ovunque. Solo sporadicamente le « aree-rifugio » erano divenute l'areale stesso, ma in tali casi, venne a mancare il rafforzamento genetico.

Rammentò anche che, quando le diffi­cili condizioni ambientali inibivano la produzione di semi fertili, aveva adottato il sistema della propaggine, come ingegno­so mezzo di propagazione e di sopravvivenza ai limiti estremi altitudinali e latitudinali.

Con i rami bassi che toccavano il suolo, riusciva ad emettere radici che alimentavano i nuovi germogli, i quali contri­buivano ad allargare ulteriormente l'areale di diffusione.

Con l'impertinenza tipica dei giovani, insomma, volle dir loro di essere l'unico a non avere problemi esistenziali: perfino il toponimo del Passo deIl'Abetone in pro­vincia dì Pistoia lo si doveva alla sua massiccia presenza! E con un magistrale cenno ad effetto, concluse di essere la sola essenza vegetale che innalzava inni di ringraziamento al Signore attraverso le sublimi melodie che scaturivano dalle tavole armoniche dei pianoforti e dai celeberrimi violini del liu­taio cremonese Antonio Stradivari.

Si tirò quindi in disparte, osservando compiaciuto l'espressione che le sue ultime parole avevano suscitato nei presenti, rimasti attoniti per qualche istante.

 

Il Faggio (Fagus sylvatica) che non vedeva l'ora di dire la sua, approfittò del momento di pausa e, prorompendo con voce stentorea, ruppe gli indugi. Basso e tarchiato e per nulla intimorito dall'aspet­to imponente degli altri, esclamò: “Tutti voi fate sfoggio di titoli nobiliari, decanta­te i vostri successi genetici. Pensate di avere raggiunto posizioni di preminenza nel mondo vegetale, ma dimenticate che sui versanti in quota, sono il solo ad essermi affermato con successo.

L'umidità atmosferica intercettata dal­le cime dei monti, gli ambienti rugiadosi e le abbondanti precipitazioni, mi sono con­geniali e riesco a prosperare su ogni tipo di terreno, da quelli calcarei, a quelli sili­cei o argillosi, dove organizzo indifferentemente boschi puri e boschi misti.

Lo so, so, corre voce che io sia un essere asociale, capace di impedire la presenza di altre specie arboree, ma ciò non é vero, tant'é che là, dove l'intonazione del clima lo consente, permetto all’abete bianco di accompagnarmi, sia pure in posizione sub­ordinata. Perciò non mi avete invitato ed anche perché pensate che io non sia degno dei vostri nobili natali, però sappiate che pure io sono figlio dell' era glaciale an­che se, per farmi strada, ho dovuto atten­dere che il freddo intenso fosse finito e si fosse instaurato un clima di tipo oceanico o temperato-marittimo-fresco”.

“Ad ogni modo, sono il solo a possedere un’ampia valenza ecologica, poten­do tollerare condizioni termiche piuttosto estese che fanno progredire sia i miei insediamenti freddi, le faggete montane vere e proprie, che gradiscono un buon grado di oceanicità, sia quelli termofili, quando le condizioni climatiche diventano più calde e meno umide.

Vi rammento inoltre che anche l’intervento dell’uomo su di me ha pochi effetti:  per voi è stato e continua ad essere pericoloso, mentre io non cedo, non soccombo, anzi, dopo un taglio, ad esempio, riacquisto nuova vitalità ed emettendo numerosi polloni, mi rigenero dalla ceppaia”.

Ma non poté tirare troppo per le lunghe questa veemente arringa in difesa di se stesso perché fra i partecipanti, qualcuno lo ammonì di non montarsi troppo la testa; era noto “ad abundantiam” di che pasta tosse fatto in tema di concorrenzialità vegetativa.

Era un despota intollerante che non si faceva scrupoli di estromettere e far soccombere le specie antagoniste. Fu sottolineato pure che ad onta di tutte le sue strategie, non era specie longeva. Poteva vivere normalmente sino ai 150 anni e, solo in circostanze eccezionali poteva arrivare ai 300. Un dato veramente esiguo rispetto all’età veneranda che potevano sfoggiare i presenti.

Inoltre anche lui non era immune da acciacchi e malattie varie; parassiti come lepidotteri, ditteri ed altri insetti, non gli lesinavano i loro attacchi. Le foglie e i suoi teneri germogli erano spesso aggrediti dal bruco della farfalla Stauropus fagi e le larve della Cecidomia fagi, un minuscolo dittero, inducevano nel tessuto fogliare la formazione di vescicole: le galle.  Altro che vitalità !

I suoi tronchi erano protetti da uno strato di sughero, tanto più sottile, quanto più gli individui crescevano all’ombra reciproca. Da qui l’opportunità di formare fitti popolamenti che si proteggevano vicendevolmente con le chiome dalle radiazioni ultraviolette del sole.

Gli individui rimasti improvvisamente isolati per il diradamento dopo un taglio eccessivo, erano infatti particolarmente esposti al classico « colpo di sole » che provocava necrosi nei tessuti viventi e nella corteccia; così con il corpo legnoso messo a nudo, gli interessati rapidamente deperivano.

La sua giovialità e la sua socievolezza quindi, che talvolta manifestava nei confronti di pochissime specie, erano tali solo in apparenza perché erano dettate da motivi di convenienza, di calcolo. Era comunque un egoista che preferiva una corte di piccoli gruppi erbacei e arbustivi alle sue dipendenze, piuttosto che l’insidiosa presenza di creature competitrici.

A questa filippica il faggio poté solo obiettare che in fondo gli insetti, con i loro attacchi, gli rendevano un servigio, perché le foglie, costellate di minuscole bollicine rigonfie (le galle), di color rosso acceso, spiccavano nel verde della chioma, esaltando la sua bellezza.

E per ammorbidire i toni aspri dell’interlocutore, come ultima risorsa, sfoderò la sua presunta bontà d’animo: “Ricordato perfino da Virgilio nelle sue «Egloghe», ho acquistato via via,  molte benemerenze nel mondo degli uomini: miglioro il terreno, sia nella struttura, che nelle proprietà chimiche tanto da essere considerato « bàlia, madre o nutrice del bosco»; il mio legno ha un buon potere calorico, da esso, per distillazione, si estrae catrame e si prepara dell’ottimo carbone. Ha un gradevole colorito leggermente rosato, è esente da nodi e può essere lucidato a specchio, si piega facilmente e può essere tornito; è quindi un materiale ideale per la costruzione di mobili, arredamenti, parquets ed altri oggetti di uso domestico.

“Anche i miei frutti, infine, le faggiole, hanno per secoli contribuito ad alleviare i disagi dell’uomo. Sono commestibili e ricchi di olio che, secondo alcuni, sarebbe inferiore, come qualità, soltanto all’olio di oliva; essiccati e macinati, poi, possono servire come succedaneo del caffè. Le quali cose giustificano appieno il mio nome (dal lat. fago = mangio) e … scusate se è poco”.

Così concluse e gli altri dovettero convenire che, in fondo in fondo, aveva ragione.

 

Note

*   Le località citate sono quelle dove è possibile incontrare le specie riportate nel testo. In esse, infatti, si trovano gli esemplari più ragguardevoli (per età, forma e dimensioni), tutelati dal Corpo Forestale dello Stato in quanto veri e propri “monumenti vegetali”.

 

Bibliografia

I dati scientifici sono stati tratti da Botanica Forestale di R. Gellini

  - Edizioni CEDAM - Padova 1996